Saturday, 29 September 2012

PANE, ACQUA E SOLE A SCACCHI. BREVE TRAGEDIA DI UN UOMO SOLO


Può sembrar quasi ovvio, lapalissiano forse, il coro di sdegno nei confronti della sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato il giornalista Alessandro Sallusti a 14 mesi di detenzione. Suona come un editto da regime l’ordinanza di arresto che incombeva (fino alla sospensione di ieri) sulle spalle dell’ex direttore di “Libero”, con la sola accusa di aver diffamato qualcuno tramite un semplice articolo di giornale. E allora si sguinzaglia l’Italia dei professori e dei giuristi, l’Italia dei plastici di Cogne e di via Poma, l’Italia della “magistratura che fa schifo” e della “giustizia ad orologeria”, l’Italia del “non è giusto” e del “ma però”. Una valanga di opinioni vomitate da più parti che inondano i confusi capisaldi di un’opinione pubblica poco presente, poco attendibile e molto, molto smemorata. Non si riflette, non ci si interroga ma ci si schiera pro e contro, come da tradizione nel Paese delle tifoserie e del bipolarismo. Senza una lettura approfondita, senza un’analisi, e soprattutto senza, ad esempio, compiere due gesti che, alla lunga, potrebbero rivelarsi sommariamente importanti: una controllata all’articolo condannato, e uno sguardo, anche fugace, alla sentenza. Basterebbe questo. 
Ma il popolo che salva Barabba, si vede costretto a portare a casa un bottino, qualsiasi esso sia: consenso, voti, gratitudine. Non sa, ma sciorina sentenze, quelle sì, ponderate e sacrosante. Non sa il popolo del “’ste cose solo in Italia” che cosa c’era di così tanto grave in quelle righe datate 2007. Non sa che erano riportate notizie false. Non sa che si invocava la pena di morte per un giudice che aveva compiuto correttamente, lui sì, il suo lavoro. Non sa che in quell’articolo veniva erta a paladina di etica e moralità una tredicenne che invece sarebbe dovuta essere la principale imputata delle sballate invettive sallustiane. Ma suonava male, e proteggere una bambina indifesa porta consenso, compassione e condivisione. E allora via alla fiera del falso. 
Ma soprattutto, il popolo degli indignati a cronometro, che si vergogna di uno Stato che fa rinchiudere il direttore di un giornale come nella più classica tradizione staliniana, si dimentica di indignarsi di fronte ai 3000 cristiani, pardon, umani, condannati all’arresto (allo stesso modo del direttor Santanché, pardon, Sallusti) con la incombente responsabilità (colpa?) di essere fuggiti da un Paese in guerra, povero, ammalato per cercar fortuna altrove, accolti invece, ignari, dalle manette. Il popolo dei colpevoli di clandestinità vive nell’oblio dell’esercito dei banchi dell’accusa che è sempre pronto a difendere l’uno e a dimenticare i 3000. 
Una condanna del genere appare spropositata e (quasi…) senza precedenti. La risposta più azzeccata però, sorprendentemente, arriva proprio dal protagonista della vicenda, che di fronte al baratro raccoglie da terra la dignità perduta nel 2007 e, difendendo la mano del giudice che lo ha condannato, incolpa quella inerte della politica che non ha mai pensato di modificare una legge pluridecennale. 
La faccenda si concluderà con un nulla di fatto che accontenterà tutti. Sallusti continuerà ad accomodarsi accanto al focolare a contemplare la bella Daniela nelle sere d’inverno, e il popolo dell’invettiva, limitatamente soddisfatto, tirerà un sospiro di sollievo. Ma non baderà mai più al precedente ed anzi, incuriosito, come tipico mito folcloristico del maschio italico, al giornalaio, le mattine seguenti, insieme a Chi (“pe’ mi moje”), Novella dumila (“pe’ mi fija”) e al Coriere doo Sport (“pe’ vede’ che dicono daa Roma”), l’aitante “PM fai da te”, richiederà anche una copia del nuovo pezzo del rampollo dell’editoria berlusconiana perché “Alla fine m’è sempre piaciuto a me Sallusti”. 
Quando poi verrà a sapere dell’arresto di un suo compagno di giochi da ragazzo, per una misera rapina al supermercato sotto casa, dopo una vita di debiti e cambiali, esclamerà, con la consapevolezza fallace di trovarsi dalla parte giusta: “Come ar solito, drent’a ‘sto Paese, ar fresco ce vanno solo i poracci”. E proseguirà la sua giornata, con l’orgoglio di una coerenza che, anche lui stesso, sa di non aver mai posseduto.


Francesco Gentili


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